Mano…mano morta?

Il bel libro del fotografo Giovanni Giannarelli nasce dalla sua collaborazione col prof. Carlo Perfetti, neuropsichiatra a cui si deve la nascita di quella scuola di pensiero che si connota come riabilitazione neurocognitiva. Condividendo l’interesse nei confronti della mano (tema al quale anche qui a Massa sono state dedicate molte giornate di studio, a partire dal fortunato convegno del 2008 intitolato La mano, specchio del cervello), sia Giannarelli che Perfetti hanno inteso –ciascuno col suo linguaggio- evidenziare, della mano, le inesauribili potenzialità, ovviamente nell’ottica del cosiddetto embodiment, che considera corpo e mente come  inscindibile unità. Le 40 foto del volume sono le stesse già esposte lo scorso aprile nel salone degli Svizzeri di Palazzo Ducale in una mostra molto partecipata e molto apprezzata e davvero, per il loro vigore espressivo ed evocativo, possono più che legittimamente ambire ad essere considerate foto d’arte. Non a caso, tranne l’ultima, esse sono tutte rigorosamente in bianco e nero, perché indubbiamente il bianco e nero, soprattutto quando comporti l’uso accorto delle variazioni tonali, della luce e dei chiaroscuri, sembra più capace, rispetto alle fotografie a colori, di andare all’essenza delle cose, di obbligarci a cercare, tra le pieghe delle immagini rappresentate, significati nascosti e più profondi. E, in effetti, si tratta di fotografie capaci di suscitare intense emozioni. Di fronte alle mani nodose ma agilissime della vecchina che con antica perizia sbuccia e raccoglie nel suo grembo i fagioli; di fronte al contadino che, piegato sul terreno, vaglia ad una ad una le sue patate accarezzandole come sue creature; di fronte alle rugose mani unite a conca per contenere le castagne secche (le secchine), pronte ad essere trasformate, nel vecchio mulino sul fiume, in quella farina che è sempre stata così preziosa per le nostre povere genti, non possiamo non provare un nostalgico rimpianto per quei saperi di una volta ormai quasi estinti, e in fondo anche per quello stile di vita più genuino, più sano, più a contatto con la natura. La giovane, affusolata mano neretta costretta a reggere un cumulo di stupide chincaglierie da vendere riacutizza in noi quel senso di colpevole impotenza che sempre ci prende nei confronti dei drammi dell’emigrazione, della tragedia di quelle giovani vite sradicate, piene di in sicurezza e solitudine. La maestosità di quei  volumi antichi che campeggiano negli scaffali della biblioteca e la mano della bibliotecaria che ad essi si avvicina con voluttuosa reverenza ci ricorda quanto siamo avidi di passato, di radici, di cultura. Ci inquieta moltissimo il chiarore spettrale della luna che illumina l’agghiacciante silenzio della montagna ferita dalle cave. Ma quei corpi tesi nella danza, quelle mani che battono il tempo, quelle dita che sembrano fondersi con gli strumenti musicali, ci restituiscono l’incanto del ritmo, il miracolo della musica…Insomma, molte emozioni… Carlo Perfetti, che ha scritto l’introduzione, è ben convinto che anche le emozioni rappresentino un veicolo di conoscenza, tanto che ha sempre amato la contaminazione tra i linguaggi della scienza e i cosiddetti linguaggi “extrametodici” capaci anch’essi di parlare della verità. Ci invita, però, usando un’espressione brechtiana, ad evitare una fruizione puramente “gastronomica” delle fotografie del libro. Brecht voleva il suo teatro certo non meno accattivante di quello borghese tradizionale, ma lo voleva “epico”, capace cioè di narrare storie che non lasciassero lo spettatore passivo, che scuotessero la sua coscienza, che lo impegnassero in un dibattito di idee, lo costringessero a prendere posizione. Nessuna aura magica, dunque, nessun rapimento, o ipnotica commozione, o immedesimazione aristotelicamente catartica: se l’arte ha un senso –pensava Brecht- non è certo quello di rappresentare un piatto stuzzichevole per palati raffinati, che lo assaporano e lo gustano per poi andarsene a casa come se niente fosse. L’intelligenza, la ragione, lo spirito critico, che devono essere componenti essenziali del prodotto artistico, devono anche essere gli strumenti fondamentali della sua fruizione. E in effetti  le foto di Giannarelli, mentre appagano il nostro senso del bello, ci suggeriscono  –grazie anche alle originali  didascalie e al loro  voluto effetto brechtianamente  “straniante”-  un percorso di riflessione. Una possibile chiave di lettura può scaturire proprio dal confronto. Già la prima foto, col suo surplus di fascino dovuto alla citazione michelangiolesca, mettendo a confronto una mano umana con un esoscheletro, punta il dito sull’enorme problematicità di un’eventuale sostituzione (tema al quale  peraltro abbiamo dedicato un recente convegno che ha coinvolto, oltre a Perfetti e al filosofo Maurizio Iacono,  anche un chirurgo plastico e un bioingegnere). Molto problematica la sostituzione della mano, perché, se è vero che tutti i movimenti del corpo, di qualunque parte del corpo, vanno sempre interpretati come attività mentali e quindi sono importantissimi ai fini dell’apprendimento, è anche vero che la mano è il segmento corporeo decisamente più dinamico e adattabile, capace di costruire, interagendo col mondo,  informazioni preziosissime e raffinatissime che neppure la vista sa produrre.  Fondamentale è in tal senso il suo frazionamento, come dimostra il paragone tra le manine cicciottelle e tenerissime del neonato, che però,  proprio perché mancano di frammentazione, poco e male interagiscono con l’ambiente,  e la mano  del vecchio fotografo , che sa reggere contemporaneamente la testa e la sigaretta, dimostrando ben altre competenze motorie, sensitive – e dunque cognitive-. La mano del ragazzino nato e cresciuto in era digitale dimostra una straordinaria velocità e destrezza nell’uso del pollice e dell’indice, ma sottoutilizza le altre dita, cosicché –come ci fa notare preoccupato, nel suo prezioso contributo, il dott.  Pietro Sacchelli- magari sa far meraviglie con la tastiera ma non sa allacciarsi le scarpe o palleggiare con una mano sola o costruire oggetti per giocare. Un altro confronto viene suggerito: quello tra  mani come quelle della vecchina dei fagioli, del contadino, dell’artigiano, dei musicisti ecc., che sanno costruire tutte le informazioni necessarie alla realizzazione di un proprio intenzionale progetto, e mani trasformate invece in semplici strumenti per fare movimenti meccanici automatizzati e ripetitivi, funzionali a progetti non propri ma elaborati da altri. Questa sorta di reificazione della mano dovuta all’attuale organizzazione del lavoro ipertecnologica rappresenta davvero un temibile pericolo. Ecco allora che  forse anche il lavoro dovrebbe essere radicalmente ripensato. Se hanno ragione autori come Bateson o Varela, che  considerano l’uomo come un sistema autopoietico, autoregolantesi, inserito in un più vasto ambiente che a sua volta costituisce un sistema tendente all’equilibrio, forse dovremmo smettere di considerare il lavoro  come frutto dell’arrogante pretesa dell’uomo di dominare e piegare a sé la natura, e imparare  invece a valorizzarlo come l’attività attraverso la quale l’uomo, modificando il proprio ambiente  materiale e culturale, se ne fa a sua volta modificare. Così da diventare sempre più adattabile alla mutevole e imprevedibile realtà che lo circonda e da poter instaurare con essa relazioni che non siano dannose né per il sistema uomo né per il sistema ambiente. Un’ultima annotazione. Il libro è impreziosito da alcuni scritti davvero molto interessanti e di piacevolissima lettura. Alcuni di essi rappresentano una sintesi delle relazioni che sono state tenute durante il precedente convegno collegato alla mostra (mi riferisco agli interventi della linguista prof.ssa Marcella  Bertuccelli Papi, della storica dell’arte prof.ssa Luisa Passeggia e del  filosofo prof. Maurizio Iacono). Altri scritti, invece, rappresentano un contributo originale di alcuni amici  che dalla mostra e dal libro hanno voluto trarre ispirazione. Il prof. Enrico Medda, da grecista, rilegge per noi  le molte pagine omeriche che affidano ai gesti della mano i più profondi significati espressivi , lo scrittore giornalista Fabrizio Pasanisi, in un simpatico e intrigante racconto, va alla ricerca del gesto perfetto per sedurre la donna  a lui destinata, il pedagogo dott. Pietro Sacchelli ci invita a non sottovalutare il rischio che la perdita della manualità si accompagni ad una regressione della creatività e alla contrazione del linguaggio.

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